L'ebbrezza - 1971

MONDO SOMMERSO - marzo 1971

L'EBBREZZA

di Raimondo Bucher

II tornare su argomenti come l'« ebbreza delle profondità » e la « malattia da decompressione » in corso di immersioni profonde con autorespiratore ad aria compressa, dopo tutto quello che si è fatto e si è scritto in questo ultimo decennio, può sembrare anacronistico e anche, diciamolo pui pretenzioso.

Infatti in questi ultimi anni abbiamo assistito al bruciante succedersi di imprese che sotto il profilo umano tecnologico scientifico hanno del prestigioso.

Dai programmi «Pré-continent» di Cousteau e «man in the Sea» di Link e Snuit, attraverso i tré « Sealab » di Bond, è giunti fino agli impressionanti risultati dei -364 metri raggiunti con l'operazione «Hydra I» di Delauze e Fructus, i quali con il progetto «Hydra II» contano, addirittura di poter raggiungere i -500 metri. Anche con ottimi risultati, nel campo dell'attivi lavorativa a grandi profondità, sono stati ottenuti dal centro di ricerche diretto e Prof. Francesconi, che opera sul lago Albano.
Le moderne tecniche di saturazione con gas inerti e di soggiorno prolungato in iperpressione, hanno dato, insomma, la certezza di possedere ormai gli strumenti atti ad aprire la platea continentale alla esplorazione e al lavoro dell'uomo.
Ovviamente, queste imprese sono rese possibili, oltre che dai progressi tecnologici e dall'impiego di grandi mezzi, anche dai progressi compiuti negli studi su fisiopatologia dell'immersione subacquea.

In utto il mondo gli studiosi che si occupano di questo argomento costituiscono ormai una foltissima e autorevole schiera. Fra tanti, notissimi per l'importanza e la serietà delle loro ricerche: Chouteau, Brauer, Burnett, e i già citati Fructus e Bond, e da Aggazzotti, Molfino, Zannini, Albano, Monatti, Ricci, Odaglia, Pallotta, Chines, soltanto per citare i nomi che per primi mi vengono in mente.
Ho premesso quanto sopra perché per prima cosa, desidero precisare che questo mio articolo non ha la pretesa di inserirsi in tanto fervore di studi e di attività. Tuttavia, nonostante le innumerevoli ricerche, le fondamentali pubblicazioni sulla fìsiopatologia da immersione e nonostante gli impressionanti risultati raggiunti con tecniche a miscele respiratorie tanto diverse da quelle impiegate nella semplice immersione con ARA, ho deciso di portare il mio modesto contributo su questo argomento per una serie di motivi che mi sembrano tutti validi.

Anzitutto, penso che i comuni autorespiratori ad aria compressa, limitatamente alle profondità che sono accessibili con questo mezzo, non possono essere considerati superati e non saranno mai abbandonati. L’economicità e la facilità del loro impiego nel campo del lavoro e dello sport subacqueo in quest'ultimo settore, anzi, si sta assistendo ad un progressivo aumento della loro diffusione.

Inoltre, ho la sensazione che la spinta degli interessi per lo sfruttamento del fondo marino abbia portato, per cosi dire, a bruciare le tappe, a sopravvanzare, cioè, con i tentativi pratici, l'effettiva soluzione di tanti problemi di fisiopatologia dell'immersione; e credo che questi problemi, ancora non del tutto risolti, non siano stati affatto superati dall’impiego di miscele respiratorie diverse dall’aria, e che debbano ripresentarsi seppure a profondità maggiori, sostanzialmente immutati, anche con queste nuove tecniche. Infine, ritengo che i risultati dei tanti autorevoli studi in questo specifico settore, oltreché spesso ancora contradditori, siano troppo confinati in una letteratura specialistica, nei meandri della quale l'orientarsi è privilegio soltanto di pochi.

Su tanti punti di vitale importanza i pareri sono ancora scordi, le ipotesi tante (direi troppe), i tentativi di chiarire e di semplificare le idee pochi, e, invece, coloro che si immergono con gli ARA sono numerosi e tendono ad aumentare ogni giorno di più.
Questo articolo, appunto, va inteso unicamente come un tentativo per chiarire, direi soprattutto a me stesso, la eziopatogenesi di alcune manifestazioni morbose da immersione profonda, a tutti ben note, ma su cui ancora oggi, nonostante i progressi tecnologici e le profondità conquistate, non si è raggiunta una sufficiente univocità di pareri. Perciò, forse, nulla di quanto scriverò, per chi conosca l'argomento, risulterà nuovo.

Esso è il frutto di una « decantazione » operata per anni: su quanto andavo leggendo nella letteratura, sulla mia diretta esperienza di un ventennio di immersioni sportive, sul continuo scambio di opinioni con tecnici che per motivi professionali e sportivi scendono abitualmente a profondità considerate «limite» per l'ARA e, soprattutto, l'osservazione, durante la mia attività di medico ospedaliere, di alcuni quadri clinici che si verificano in patologia respiratoria e la cui analogia con l’ebbrezza e la malattia da decompressione ha costituito motivo di lunghe riflessione.

A proposito dei tanti amici protagonisti dai quali ho attinto esperienze e “testimonianze” desidero esprimere la mia gratitudine; a Raimondo Bucher che, oltre ad aver tante volte stimolato la mia curiosità scientifica con i suoi argomenti di grande esperienza nella teoria e nella pratica subacquee, mi ha anche incoraggiato a scrivere questo articolo

Gianfranco Scarlini

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